martedì 20 novembre 2012

Countdown: - 2


La partenza è sempre più vicina. Manca davvero poco all’inizio della mia avventura, dopo domani volerò a Londra. Sarà un viaggio che non ha precedenti, in qualunque senso. Non ho grosse aspettative, perché vorrò farmi sorprendere dagli eventi che mi troverò a vivere di giorno in giorno. Parto con l’idea di farmi un’esperienza e soprattutto con l’intenzione di imparare l’inglese. Tutto quello che è in più, e anche in meno, sarà una sorpresa. Sarà un qualcosa che entrerà a far parte del mio “bagaglio” e questo tanto più è pieno e tanto maggiori saranno gli strumenti che avrò per affrontare la vita. Voglio lasciarmi travolgere da questa avventura. Tendenzialmente sono una persona che cerca sempre di avere la situazione sotto controllo, per cui lasciarmi andare non sarà semplice. Ma è uno dei propositi fondamentali di questo “viaggio”. Perché voglio godermelo.
Tuttavia, nonostante l’euforia, mi ritrovo a pensare a quelle piccole cose che rendono felice la mia vita e che mi mancheranno. Ci pensavo poco fa, quando sdraiandomi accanto a Lui mi sono fiondata con la testa sul suo petto e Lui, automaticamente, ha aperto il braccio per “accogliermi”. Un gesto meccanico, che ormai ci viene spontaneo quando abbiamo voglia di coccolarci. Ho sentito il suo odore e ho pensato che mi mancherà tanto, tantissimo. Però sono consapevole che queste cose, proprio perché così preziose, saranno la mia forza nei momenti di malinconia.
E poi penso alla mia famiglia. Sono molto legata a loro e la lontananza un po’ mi preoccupa. I miei genitori sono davvero fieri di questa mia esperienza, sono convinti che mi servirà tantissimo e che sia necessaria al termine di un percorso universitario. La lontananza da casa da sempre mi crea ansia. Tuttavia, non è la prima volta che mi “allontano”, infatti durante tutta l’università ho abitato nella città in cui studiavo, ma tutti i fine settimana tornavo perché le distanze me lo permettevano e soprattutto perché ne avevo voglia. Chiaramente, da Londra non potrò tornare ogni week end e, questa volta, non è nemmeno mia intenzione farlo, perchè credo che certi limiti debbano essere affrontati. Essere attaccati alla propria famiglia non significa rinunciare a delle esperienze. Per cui cercherò di essere forte per superare i momenti di malinconia. E poi con Skype, potrò davvero sentirli e vederli tutte le volte che ne ho voglia.
In questi giorni ho salutato un sacco di gente fra parenti e amici. Il bimbo di una mia amica mi ha salutata chiedendomi di portare la sua letterina a Babbo Natale... che tenero, la mamma gli ha detto che vado al Nord e lui ha pensato che potessi incontrare Babbo Natale -.- Dolcissimo! 

In questo post ho messo nero su bianco le mie intenzioni relativamente a questo viaggio, le poche aspettative, la tanta voglia di essere sorpresa, la preoccupazione circa la mancanza dei miei punti fermi e la molta voglia di godermi ogni istante di questa esperienza. Ma solo quando l’avventura sarà iniziata, potrò descriverne l'effetto.

A prestissimo!


giovedì 15 novembre 2012

Disagio o Confidenza? Aggiornamento.


Innanzitutto vorrei ringraziarvi per i consigli che mi avete dato ieri.
Stamani ho chiamato la mamma di E. Le ho spiegato tutto. Mi ha ringraziata tanto e mi ha assicurato che non avrebbe detto nulla al figlio, anche perché altrimenti lui non mi avrebbe raccontato più niente. Per lei è importante che lui si confidi con me, mi ha detto che le dice sempre che viene volentieri perché oltre ad aver imparato tante cose, con me si trova bene. Confermando quello che ho detto ieri, questa per me è una gratificazione immensa. Quando si crea un rapporto che va al di là della semplice ripetizione insieme è una grande soddisfazione.
Il bimbo le aveva accennato qualcosa e lei è già andata a scuola ma non ha trovato il prof. In realtà i racconti non combaciano molto, per cui dovrà indagare. Parlerà sicuramente con il professore. Probabilmente, questo comportamento del prof è dovuto al fatto che siccome spesso E. viene preso in giro dai compagni, allora lo fa cambiare nello stanzino da solo per evitare che negli spogliatoi succeda qualcosa. Però E. ci sta male e soprattutto non gli è stata data una motivazione da parte del prof, per cui si sente colpevole di qualcosa oltre che isolato. Agli occhi di tutti è lui che sbaglia, perché è lui che ci rimette. Aiutare un bambino non significa isolarlo e farlo “pagare” al posto degli altri. Invece di “punire” coloro che gli danno fastidio, ci fa rimettere lui. Il bimbo la vive come una punizione e questo atteggiamento peggiora il distacco tra lui e i compagni. In questo modo, quel prof, rafforza gli altri e sminuisce E. Credo che gli insegnanti, per essere chiamati tali, oltre che conoscere la loro materia dovrebbero saper educare i ragazzi ed essere in grado di gestire le problematiche anche personali degli studenti.
Se un bambino viene preso di mira dagli altri, è la fine. Perché i ragazzini sanno essere tanto insensibili quanto spregiudicati. E. sta attraversando un’età di passaggio dall’essere bimbo all’essere ragazzo. Questo percorso c’è chi lo attraversa più velocemente e chi, invece, necessita di tempi più lunghi. Ma un bimbo, a quanto pare, non può permettersi di rimanere indietro rispetto alle evoluzioni degli altri perché altrimenti viene denigrato. Tuttavia, E. per essere inserito nel gruppetto dei “furbi” non accetta di dover fumare con loro, perché ritiene che per essere “grandi” non occorre fumare e non per forza uno che non fuma è un “piccinaccolo”; E. gioca ancora, gli piace ritrovarsi a casa con un amico per giocare insieme; E. non ha la ragazzina, come invece hanno quei compagni “ganzi”. Però per loro “se non ce l’hai, allora sei gay”. Come se essere gay possa essere motivo di diversità.
Trovo che E. sia molto più maturo di chi per omologarsi agli altri scende a compromessi.



mercoledì 14 novembre 2012

Disagio o Confidenza?


Durante tutto il periodo universitario ho sempre lavoricchiato, sono passata dal fare la cameriera alla baby-sitter per poi giungere nel mondo delle ripetizioni. Tutto è iniziato per caso, perché una collega di mia cognata cercava qualcuno che potesse dare lezioni private al figlio. Mia cognata, prontamente, le propose il nome della sottoscritta, confidando nelle mie capacità “scolastiche”. In concomitanza anche un’altra ragazzina che conosceva, aveva bisogno di un sostegno nello studio, per cui mi mandò anche lei. S. e G. furono i miei primi due seguaci e grazie a loro è iniziato un giro di passaparola che mi ha portato ad avere un via-vai di studenti a lezione.
Questa “attività” mi ha sempre dato soddisfazione: ricevere le telefonate dei miei ragazzi che felici mi comunicano un bel voto al compito mi riempie di gratificazione; vederli “dipendenti” da me, dal punto di vista scolastico intendo, mi fa capire che il lavoro che faccio con loro funziona; ricevere la telefonata di una mamma che mi ringrazia per il lavoro svolto con il figlio mi fa sentire apprezzata. Sò qual è il sacrificio che i genitori fanno per permettere al figlio di avere ripetizioni e io, per questo, cerco di svolgere il mio “ruolo” nel modo più efficace e onesto possibile. Anche perché penso che se ci sono i risultati, i sacrifici si fanno più volentieri.
Oramai mi sono affezionata ai miei ragazzi e una loro preoccupazione, scolastica e non, non mi scivola addosso ma mi mette nelle condizioni di fare il meglio per aiutarli ad affrontarla nel migliore dei modi. Qualche giorno fa, E. un ragazzino di terza media, durante l’ora di ripetizione ferma la mia spiegazione raccontandomi un aneddoto successo a scuola. Mi dice che il professore di ginnastica ogni volta lo manda in uno stanzino a cambiarsi da solo e non insieme agli altri compagni. Gli chiedo se fosse successo qualcosa e, magari, questa era stata una punizione. Lui controbatte dicendomi che non si tratta di un evento occasionale, perché succede sempre. Provo a chiedergli il motivo, ma noto che ha il nodo in gola e sta per piangere. Mi preoccupo. Con calma, gli chiedo se ha raccontato questa cosa ai genitori. E. mi dice che il padre non lo sa, ma alla mamma gliel’ha detto e che nei giorni seguenti sarebbe andata a scuola a parlarne. Molte volte mi racconta di episodi successi in classe, ma mai aveva reagito così. La volta precedente, per esempio, mi aveva raccontato che un compagno di classe spesso gli prende la merenda e gliela frantuma, non permettendogli di mangiarla. Oppure che due compagni la mattina lo avevano fatto cadere e per poco non ha picchiato la testa nel termosifone.
Ho aspettato un’altra lezione insieme, quella di ieri, per chiedergli come andava e soprattutto se la mamma aveva avuto spiegazioni dal professore di ginnastica. Lui mi dice che forse la madre non è ancora andata a scuola perché non gli ha detto nulla. Mi sta venendo il dubbio che E. alla mamma non abbia raccontato niente o comunque poco, perché teme che l’intervento dei genitori potrebbe peggiorare la situazione con i compagni; questo dubbio mi viene perché i genitori generalmente lo seguono molto e mi sembra strano che non siano intervenuti.
Alla fine dell’ora di ripetizione, è venuta la mamma a riprenderlo ma ho preferito non dirle nulla davanti a lui per non tradire la sua fiducia. Dopo mi sono chiesta se questa era stata solo una confidenza da parte di E. o un segnale di aiuto per un forte disagio in classe. Io non sono psicologa ma ripensando alle varie cose che via via E. mi dice e soprattutto a quella sua precisa reazione, forse la risposta sta nella richiesta di aiuto. Non so cosa fare, se senza dire nulla a lui chiamare la mamma per spiegarle l’accaduto. Non vorrei essere entrante, spero solo che lei non prenda il mio comportamento come presuntuoso, ma capisca che la mia intenzione è solo quella di dargli un’informazione che, forse, in molti casi, i genitori sono gli ultimi a sapere. 
Cosa ne pensate? Come dovrei comportarmi?

lunedì 12 novembre 2012

Ti aspetto.


Cinque ore di intervento. Lunghissime, interminabili. Ad aspettare ogni secondo la fine e ad immaginarti lì dentro, addormentato e non più in preda alle paure che fino a poco prima ti pervadevano. Sono state ore di tensione, di chiamate da parte di tutti per sapere come era andata e di mie risposte agitate. Alla fine, quando il chirurgo ha annunciato la buona riuscita dell’operazione, mi sono sentita più leggera, sollevata e non vedevo l’ora di abbracciarti. Ho saputo che tu, ancora in dormiveglia e incosciente per l’anestesia, mi hai chiamata, mi cercavi. Il tuo primo pensiero sono stata io. E questa cosa, mi ha fatto vibrare il cuore. Dopo una notte intera passata in terapia intensiva, finalmente ti ho visto. E mi hai vista. Avrei voluto stringerti forte in quel momento, ma non potevo. Ti ho dato un bacio sulla fronte, mentre ci brillavano gli occhi. Da quell’istante non ti ho più lasciato un minuto. Abbiamo passato le giornate mano nella mano, tu nel letto della clinica e io in una sedia accanto a te. Fino a quando, un pomeriggio, non ce l’abbiamo più fatta a stare così “lontani” e abbracciati ci siamo addormentati nel tuo letto. 
Piano piano ti stai riprendendo e ieri, all’uscita della clinica, stavi decisamente meglio. Ho perso il conto delle volte che, guardandomi negli occhi, mi hai ringraziata. Per me, starti vicino e non allontanarmi da te, era la cosa più importante. Stare a casa, pensandoti in quelle condizioni, mi avrebbe fatto stare solo male. Invece, lì insieme a te, avevo la situazione sotto controllo e questo mi rendeva più tranquilla. Inoltre penso che stare da solo anche soltanto per un’ora non ti avrebbe fatto bene all’umore, i pensieri sarebbero arrivati chissà dove. Quante volte mi hai chiesto lo specchio, per controllare se il gonfiore era un po’ diminuito? Guardarsi con qualcuno che alleviava le tue preoccupazioni ha provocato un colpo meno duro, forse.
Comunque, il peggio è passato. Adesso si tratta solo di rimettersi in forma. Forza eh, che Londra aspetta me ma anche te! E soprattutto sarò io ad aspettarti, perché mi mancherai come l’aria. Non vedo l’ora che arrivino quei week end insieme, in giro a scoprire mano nella mano le bellezze di una città nuova.